Qualche giorno fa, ascoltavo in tv il discorso di una ragazza in merito alla sua difficoltà a socializzare, a mettersi in gioco, a “buttarsi un po’ di più”. Durante il confronto con la sua interlocutrice, la ragazza si è pian piano lasciata andare, raccontando qualche passaggio della sua vita ancora così giovane
Racconta di aver vissuto tanto tempo in solitudine, scegliendola come rifugio in cui poter essere al sicuro, lontana dai rischi ma anche dal valore aggiunto di un contatto con l’esterno. Pian piano, le lacrime scendevano sul suo meraviglioso volto.
La scelta di isolarsi, di chiudersi ermeticamente in se stessa e nella sua stanza, era legata al timore di non essere all’altezza, di non essere accolta, alla paura di essere dimenticata, di non riuscire a fare la differenza per qualcuno, di non riuscire a lasciare una traccia degna di essere ripescata nella memoria per godere di una carezza piacevole sull’anima.
Ecco che, pian piano, è emersa la sofferenza per un abbandono, uno stato che ci consegna spesso un carico emotivo troppo pesante. Un carico che immobilizza i movimenti del cuore, quelli legati alla condivisione, al valore aggiunto di un legame, di un essere accanto, di un esserci, semplicemente.
Inoltre, la ragazza era rammaricata per non aver mai detto a sua madre quanto le volesse bene, quanto lei rappresentasse un esempio di forza, determinazione, costanza, presenza. Spesso etichettiamo i comportamenti delle persone in una parola, in un ‘espressione così contratta che mai potrà rendere giustizia all’universo che sottende un comportamento.
Tante volte i comportamenti, soprattutto se reiterati nel tempo, sono la risposta ad un groviglio di emozioni che aspetta di essere districato insieme a qualcuno che sappia accompagnare, ascoltare, leggere e sostenere la persona nel ricomporre il puzzle del suo sentire.
Per tutto il tempo, ascoltando il confronto, ho rivissuto così tante storie…
Innumerevoli volte mi son trovata ad essere spettatrice silenziosa, ma emotivamente partecipativa, di così tanto dolore. Ho sempre constatato quanto i vissuti di un essere umano firmino il presente, un presente schiacciato dalla memoria emotiva della non accoglienza emotiva, del non ascolto, della critica, della solitudine, della mancanza di una presenza in grado di accompagnarci serenamente nel nostro percorso di crescita e maturazione. In fondo, ognuno di noi porta con sé le proprie ferite, tante volte mai guarite, infette, ancora sanguinanti, ancora doloranti.
Ce la si può fare attraverso l’apertura, la condivisione, il confronto, luoghi nei quali si può davvero scoprire quanto il tempo da vivere sappia essere davvero un valore aggiunto e non il surrogato di una dimensione del passato ancora così prepotentemente immobilizzante.
Prima di etichettare, fermiamoci a riflettere e, se possibile, in qualità di figure di riferimento, proviamo ad ascoltare e non solamente sentire, a guardare e non solamente vedere, ad essere accanto e non solamente “con”.
Potremmo fare la differenza.