Nell’articolo n. 66 del 13 aprile 2024 ho trattato del Brand Journalism. In quest’articolo intendo fare un approfondimento sull’argomento.
Sono un boomer, classe 1962. Mi sono innamorato del marketing quando con mia moglie decidemmo di lasciare l’Italia ed aprire una start up nel settore del design, in Svizzera, nel cantone Neuchâtel. Era il 2012. Non è andata male; in otto anni la piccola iniziativa era diventata una realtà profittevole e decidemmo di cederla per rientrare in Italia. Missione compiuta.
Decisi, quindi, di mettere a profitto le competenze maturate nell’esperienza elvetica e, anzi, approfondire la materia per acquisirne di altre. Così, da una parte, ho iniziato a collaborare con alcune aziende italiane per le quali curo la comunicazione d’impresa e, contestualmente, ho abbracciato il percorso per diventare giornalista pubblicista, abilitazione che otterrò alla fine del 2024.
Mi sono accorto che la comunicazione d’impresa poteva essere arricchita con creatività, soprattutto in mondo in continua evoluzione. Seppure, come dico di me con autoironia, resto un esemplare tendenzialmente analogico (per motivi anagrafici), il paradigma digitale ha aperto opportunità straordinarie per chiunque, anche per me. Innovazione, dati, omni-canalità sono solo alcune delle keyword alla base di questa profonda rivoluzione: per i professionisti di oggi e domani diventa fondamentale rimanere aggiornati e competenti in uno scenario così dinamico, fluido, stimolante.
Il web è un potente strumento per condividere contenuti con il proprio pubblico e conviene sfruttare tale opportunità se intendiamo ottenere attenzione e guadagnare un “posticino” nella mente di chi dovrebbe sceglierci. Fino a soli pochi anni fa, quello che scrivo sarebbe stata fantascienza!
Possiamo utilizzare Facebook, Instagram, TikTok e raggiungere una moltitudine di persone interessate a ciò di cui trattiamo (servizi, prodotti, consulenze, ecc.). In un modo del tutto gratuito, possiamo raggiungere potenzialmente chiunque.
In epoca poco meno recente (ma sembra parlare di un’altra era geologica), tre erano i soli modi per farsi notare: spendere per costose pubblicità; accattivarsi i media per indurli a raccontare la nostra storia; oppure, ricorrere ad un esercito di venditori con il compito di “portare a casa” nuovi clienti.
Oggi, l’alternativa vincente – alla portata di tutti – è quella di creare contenuti di valore per le persone che vogliono quei contenuti.
Da questa riflessione è maturata in me la convinzione che il successo online è dato dalla capacità di pensare come un giornalista e di organizzare e pubblicare contenuti interessanti capaci di farci emergere (come professionista o come azienda) stimolando nel pubblico il desiderio di conoscerci e, magari, il piacere di fare affari con noi.
Tuttavia, la questione è ricorrente: è possibile fare giornalismo, inteso come ricerca della verità, autonomia di giudizio sui fatti e rispetto dei principi deontologici, quando il professionista deve anche promuovere un’azienda? Come comportarsi davanti alla sottile linea rossa che separa il giornalismo dal marketing?
È chiaro che il giornalista ha sempre un “padrone” o un committente, qualsiasi sia il settore del giornalismo in cui si lavora. L’indipendenza nello svolgere il proprio lavoro il giornalista se la deve sempre e comunque conquistare, richiamandosi al Testo unico dei doveri che è uguale per tutti, qualsiasi sia il settore del giornalismo in cui si lavora.
Il giornalismo aziendale – il brand journalism, appunto – è una specifica modalità di svolgere la professione, un’attività che può essere assai positiva per l’azienda e per il pubblico.
Se hai domande o curiosità, se vuoi unirti alla conversazione, scrivimi nei commenti o a dambrosio.miki@gmail.com
Leggo tutto e rispondo a tutti.
Alla prossima!
Michele D’Ambrosio


