Ieri mattina all’alba Francesca Crescenzi, giovane mamma di soli 30 anni, è volata via in cielo dopo aver compiuto un gesto estremo. Un atto dettato da chissà quale disperazione e da chissà quale malessere interiore. La tragedia si è consumata nel giardino della sua abitazione in via del Frantoio (una traversa di via Accorciatoia Colletraiano) nella popolosa contrada Tecchiena di Alatri. I funerali della ragazza si svolgeranno oggi pomeriggio alle 15 nella chiesa Santa Maria del Carmine – Madonnina di Tecchiena. E saranno certamente in tantissimi coloro che parteciperanno alle esequie per dare l’ultimo saluto a Francesca e per stringersi alla sua famiglia, annichilita dal dolore.
La tragedia che ha colpito Alatri e Tecchiena in particolare, con il gesto estremo di Francesca, è purtroppo l’ennesima di una lunga serie che nel 2024 ha visto morire tanti, troppi giovani e giovanissimi. Una sequela di morte, dolore e disperazione che sembra non trovare freni e di fronte alla quale la comunità appare come stordita, anche se, al di là della sofferenza e dei messaggi di vicinanza e cordoglio espressi nell’immediatezza degli eventi, poi poco si fa, soprattutto da parte di chi dovrebbe mettere in campo energie, risorse ed interventi massicci ed efficaci.
Su questo delicato tema abbiamo chiesto il parere di un’esperta, la dottoressa Adele Quattrociocchi, psicologa della Comunicazione, che ben conosce le dinamiche di una società che progressivamente sta degenerando e scivolando verso forme di solitudine e malessere profondi.
Il parere dell’esperta
“Un’altra giovane vita spezzata. Una ragazza di 30 anni, madre, ha deciso di porre fine al proprio percorso, lasciando dietro di sé un figlio e un vuoto incolmabile. Il suicidio, soprattutto tra i giovani, ci interroga profondamente: cosa succede quando il disagio della vita diventa insostenibile e l’annientamento appare come unica soluzione?
La solitudine degli invisibili
La solitudine attraversa generazioni diverse. Gli anziani vengono sempre più spesso relegati ai margini, considerati un peso anziché una risorsa. Firmiamo per loro una sorta di condanna all’isolamento, privandoli persino del valore della compagnia. E se gli anziani soffrono nell’indifferenza, i giovani affrontano un altro tipo di solitudine: quella esistenziale.
Viviamo in un mondo iperconnesso, dove i legami autentici si fanno sempre più fragili. Prestando attenzione, ci accorgiamo di quanto i giovani si sentano inadeguati o soli, privi degli strumenti per affrontare le sfide della vita. Il dolore si accumula in silenzio, fino a diventare insostenibile. Dov’eravamo noi? Abbiamo davvero saputo ascoltarli? Noi amici, familiari, insegnanti, educatori… noi, dove eravamo?
Comunità disconnessa
Quando una madre si toglie la vita, non possiamo limitarci a giudicare o a cercare colpevoli. La sofferenza di una persona riguarda tutti noi, perché riflette il fallimento di una società individualista che ha smarrito il senso della comunità. Siamo sempre più concentrati su noi stessi, e il “come stai?” sincero è diventato un’eccezione se non uno strumento sterile per approcciare l’altro per i propri interessi.
La nostra società premia l’autosufficienza, ma ci trasforma in nodi di una rete virtuale, inesistente nella realtà, incapaci di chiedere aiuto e incapaci di offrirlo. La retorica che dipinge il dolore come una colpa e la vulnerabilità come debolezza contribuisce ad allontanare chi sta soffrendo. Chiedere aiuto diventa eroico, e chi non riesce più a farcela sceglie il silenzio o, peggio, l’annullamento.
Sintonizziamoci con gli altri
Serve un cambiamento culturale profondo: dobbiamo riscoprire il valore dell’ascolto autentico e della cura reciproca. Non bastano relazioni superficiali o contatti digitali: bisogna essere presenti davvero, accogliendo chi attraversa un momento difficile. È fondamentale educare, fin dalle scuole e nelle famiglie, che chiedere aiuto è un atto umano, non straordinario o peggio straordinariamente difficile, è cardine della nostra vita sostenersi nel bisogno.
Allo stesso modo, dobbiamo imparare a riconoscere i segnali di un dolore inespresso. Una parola gentile, un abbraccio o anche solo il tempo dedicato a un ascolto sincero possono fare la differenza. Non possiamo più ignorare il grido silenzioso di chi si sente invisibile.
E quindi?
Il suicidio di questa giovane madre deve scuoterci. È il sintomo di un vuoto che ci riguarda tutti, di una solitudine radicata nelle dinamiche della nostra società. Non basta sopravvivere: dobbiamo imparare a vivere insieme, ricostruendo reti di supporto e connessioni autentiche. Perché nessuno, mai, dovrebbe sentirsi così solo, così inutile, così di peso da credere che non esistano altre vie d’uscita se non un drammatico rifiuto della vita.
(A cura della dottoressa Adele Quattrociocchi, psicologa della comunicazione)


